Illusioni ipnagogiche

La pelle è bruciata, me ne accorgo ora, guardo le braccia, le gambe,  non è stato il sole.

Al cavalluccio marino che tenevo come reliquia sul mio comodino si era spezzato il ricciolo della coda, eppure il fatto non mi aveva dato alcun dolore.
Piuttosto, era  il grande dipinto coperto da un pesante drappo damascato a impensierirmi da tempo.  A volte salivo in soffitta con l’idea di spostare almeno un lembo della stoffa. O di  cercare tra le cianfrusaglie quei  ricordi che la mia civetta Atena è sempre pronta a tenere lontano da me. Le basta puntarmi lo sguardo addosso, con occhi grigi e fissi. Vive lì, la maggior parte del tempo, a volte andiamo a caccia insieme.

Il fatto è che anche stanotte ho sognato:  di solito sono fiori colorati che cambiano forma  a una velocità sorprendente, gioco tra sonno e veglia a reggere il ritmo e cogliere ogni  metamorfosi. Oppure sono frecce che si raccolgono a indicarmi una direzione, danzatori dervisci che  volteggiano in un campo nero fino a trasformare il mio buio in scacchiera,  geometrie perfette dove  a volte il verde e blu  si incontrano infischiandosene  di tanta regolarità.
Questa notte ai disegni organizzati e rassicuranti si sono sostituiti animali: non erano tigri azzurre, ma lupi, volpi, esseri mai visti, con sorrisi grotteschi  davano origine a mosaici spaventosi.
Sono salita in soffitta, ho strappato il drappo con forza, ma  il quadro (che in cuor mio avrei voluto vedere) non era questo

Vittorio-Corcos--Mascagni-1891*

Non è ancora l’alba, ho pensato di chiamare te, che sei forte e bello e gli somigli pure, ma devi pensare alla tua ragazza, bella anche lei, e ai tuoi sogni. Oppure te, con cui immaginiamo mondi sottili, grandi paure nel cuore. O te, con cui ho conosciuto ogni pazzo del quartiere, come Mercurio che se ne va ondeggiando, strabordante sulla sua vecchia motocicletta.
Oppure te, che stai accoccolato sotto un cielo grigio e basso, mentre la tua casa brucia.
Invece strapperò questo foglio e lo getterò nella differenziata, andrò a controllare se in montagna ci sono già i colori dell’autunno.

* Vittorio Corcos, Pietro Mascagni, 1891

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“Light of other days”

A cosa stai pensando?
Al Negev e al Sentiero del Serpente.  Agli aeroporti che ho abitato, al Cristo di Rio, al fatto  che vorrei tenere due corvi in giardino, ma liberi. Sono dispettosi, dicono, ma fanno compagnia.
Alla veranda in montagna, dove anche la luce ingiallisce e si lascia osservare mentre invecchia (l’avevamo scoperto insieme, torneremo a guardare oltre i cristalli).
Le piante sono chinate a piangere, non credo a chi mi dice che è solo il gelo inconsueto di questi giorni. Al mare, quando è calmo e azzurro, e posso vedere il fondo, di sabbia ordinata e pettinata da correnti leggere.
A quella  libreria arrampicata sulla chiesa sconsacrata.  Alla studentessa che se anche domani non supererà l’esame, dovrà tornare a casa. In Iran. All’India, così lontana ora.
Ai Balzi Rossi, alla torre di Galata, a Levanto, certo non suona bene come Mauritania, ma mi ricorda una passeggiata mai fatta.

nephélai

Caro David,
guarda il cielo per favore, ho appena visto distintamente un cane divorare un drago, una pecora trasformarsi in falco e un maiale allungarsi e rimodellarsi fino a diventare un centauro. (Te li ricordi i centauri ?)
Stamattina ci siamo svegliati incuranti del mondo e del sole che lo sta bruciando a poco a poco, rassicurati dal fatto che, nonostante le ossa suonino fragili e cave come canne d’organo e le coliti peggiorino, l’Alzheimer sembra abbastanza lontano e lo sarà ancora per un po’ se eviteremo il multitasking.
Mi hai chiesto di indicarti, quasi fossero costellazioni guida ben visibili, i punti che distanziano gli uomini.  Ma è giorno, le costellazioni non si vedono e continuiamo a conversare, evitando gesti e sottogesti di cui non c’è più bisogno.
Mentre mi racconti della Tracia e di Senofonte, camminando a piedi nudi sull’erba,  mi guardo lo smalto delle unghie dei piedi, quasi sperando di trovarle, quelle  distanze.
Mi piace ricordare come era il mondo prima che il sole si avvicinasse così tanto da bruciare gran parte degli animali che ci erano cari.
Non sorridere, David, quel che ho visto oltre la volta artificiale che ha trasformato il pianeta  in museo non erano nuvole scosse, se stringi gli occhi riuscirai a vederne la trasformazione e fino a quando ne coglierai la continuità quegli animali esisteranno ancora.
Ho sognato tigri azzurre, David, quelle che un tempo sorvegliavano il sonno di tutti noi, o forse le ho viste davvero, controlla il cielo anche tu, per favore.

Il giardino riprende a respirare

Sono certa di vivere mentre scrivo e anche mentre (ti) leggo. Ma, da qualche tempo, ho il dubbio che se mi allontano, anche per poco, tutto rischia di spegnersi, e così per ogni cosa e circostanza appena sospendo l’attenzione.

Il pensiero è andato al giardino, la mia vita. Per quanto oggettivamente bello, non esiste probabilmente per nessuno al mondo se non per me e solo fino a che non smetterò di accudirlo.
Sarà per questo che mi hanno portata via? Per convincermi hanno detto che in reparto dovrò annotare tutto, e far vivere parti di mondo che i più non conoscono. Qui si nasconde una bellezza dolente dell’animo umano che non credo si potrà raccontare, così lontana dalla realtà che sta fuori. Penso ai parenti di una sarta [stanza 12] che ha perso in un istante la memoria di una vita, hanno tappezzato il pavimento della casa con indicazioni-ricamo per farle ritrovare la strada del sonno, il cibo e il sorriso.
Ma voglio tornare presto al mio giardino, ai suoi sguardi colorati, alle rose sentinella in fila al confine, all’abbraccio forte degli alberi e leggere nelle inclinazioni dei fiori il loro star bene,  affiancare il sole in una corsa lenta,  immaginare che i rami, dopo la guerra con la processionaria, siano braccia spezzate di statue guardiane dalle schiene inarcate.

Ci sarà anche il tempo per le stelle, mi è sempre piaciuto lasciarle scorrere attraverso la piccola finestra quadrata della mia stanza, e mi addormenterò nella stupida convinzione di salvare costellazioni intere da morti orribili in oscuri angoli di cielo  guardandole fino a che non bruciano gli occhi.

 

Appeso al cielo

Stamattina non riesco a concludere nulla, distratta dalle voci dei vicini che si stanno raccogliendo a capannello sotto le mie finestre, e non ci sarebbe niente di speciale se non il fatto che qualcosa ondeggia smisurato ed elegante sopra la terrazza.
Non è il caso, avevo detto: il soggiorno è abbastanza grande ma un pianoforte a coda, no.
Si insedierebbe a scapito delle geometrie conquistate in tanti anni; ho sempre amato gli spazi vuoti, lasciano la testa libera e poi non so suonare, anche se avrei voluto, mi sarebbe piaciuto. E’ meglio lasciarlo dov’è, avevo suggerito, sulle rive di quel mare freddo e impetuoso, sua congrua dimora.
Chiudo le finestre. Resti fuori, quel pianoforte, sarà stanco per il lungo viaggio ma riposi sospeso a mezz’aria: non sono tanto sicura delle sue note, limpide, sì, ma immagino il loro accumularsi una ridosso all’altra, a colmare ogni spazio.
Sono davvero quelle che vorrei si rovesciassero nella mia stanza?

Mondi Sottili



Vivo per mondi sottili, così immaginavo la vita.
Mondi vicini tra i quali muovermi assottigliandomi e trattenendo il respiro, perfino le ossa mi si son fatte sottili, in questa illusione.
E cieli chiari, di carta velina, da attraversare senza sforzo appena un po’  scomodi.

Non sanno che qui,  dove sono stato rinchiuso,  ogni  ospite  mi offre i suoi occhi, allontanandomi dalla solitudine degli specchi e la sua storia mi rimanda a quella dei miei mondi,  colorati e fragili.